DaD: didattica emergenziale o nuova “normalità”? Riflessioni di fine semestre
Biblioteca vuota, scaffali transennati, aule chiuse, non c’è più nessuno: questo è il semestre appena trascorso. È desolante vedere la Facoltà deserta, una città fantasma con tanti spettri affaccendati che osservano quelle poche persone che osano avventurarsi in una landa desolata, miraggi i cui passi si sentono rimbombare: guardie con sguardi tronfi si aggirano per i corridoi deserti, signore intente a sanificare qualsiasi cosa possa essere potenzialmente infetta, qualche professore, qualche studente. E’ un luogo abbandonato, svuotato della sua essenza, tanto spopolato quanto affollato da ricordi di esperienze vissute che ora possiamo solo ricordare o immaginare. Tutto è fermo, quiescente: c’è tanto silenzio che si riesce a sentire il respiro dei libri sugli scaffali.
Eppure, ad ottobre alcune aule studio sono state messe a disposizione degli studenti ed alcuni corsi, a discrezione dei docenti, sono ripartiti in ‘modalità mista’, contemporaneamente in presenza e in streaming: dopo sette mesi gli studenti si sono riappropriati dei loro spazi, rientrando in aula, seppur in una realtà alienante che prevede il solito ‘rito di purificazione’ prima di entrare. Il Dpcm del 3 novembre infrange presto questa parvenza di normalità: i corsi, fatta eccezione per alcuni frequentati da matricole, passano tutti online ed alcuni professori decidono di tornare al remote learning proprio perché gli studenti, non potendo più usufruire, tra una lezione e l’altra, delle aule studio -chiuse anch’esse in quanto ‘luoghi di aggregazione’- non avrebbero avuto modo di seguire un corso in presenza e subito dopo uno da remoto. Si lasciano dunque i banchi universitari e si ritorna alle proprie scrivanie, ci si sbottona la camicia e ci si ri-mette il pigiama, si dimentica lo zaino e si apre il pc.
A quanti incontri (reali) abbiamo rinunciato? Quante e quali sono le persone che avremmo potuto conoscere? Pensiamo mai a quanto avrebbero potuto incidere sulle scelte della nostra vita? Quanti sguardi inaspettati, quante occasioni imprevedibili, quante figuracce ci siamo persi? Quante cose etichettate come ‘non necessarie’, quanta umanità stiamo perdendo? E per quanto ancora saremo disposti ad accettare tutto questo? Possiamo fare a meno dell’Università in quanto luogo fisico vissuto realmente da una comunità? Possiamo dunque decidere di dimenticare com’era la vita prima, fatta di vicinanza e socialità, di aria e di spazi, e smettere di immaginare quella futura, convincendoci che questa sia l’impeccabile gestione di un momento critico? Nessuno vede che ci sono aule vuote e grandi spazi inutilizzati? Prima o poi qualcosa ci mancherà, prima o poi ci accorgeremo di essere stati privati del diritto allo studio e di aver accettato, senza fare quasi cenno, un surrogato di ciò che avrebbe dovuto essere?
Con la DaD, abbiamo assistito ad una compressione dei luoghi che siamo abituati a frequentare che confluiscono nelle mura domestiche secondo un vorticoso movimento centripeto: si sono scoloriti e ridisegnati i confini tra quello che una volta era uno spazio pubblico e condiviso, l’Università, e quello che è lo spazio privato per antonomasia, la casa. Qualsiasi essa sia, piccola, grande, affollata o fin troppo vuota, la casa è diventata ora l’ufficio, l’aula universitaria, la palestra e spesso è tutto ciò contemporaneamente. Le ore di lezione sono scandite dal sottofondo di aspirapolvere, pentole, stoviglie, animali, fratellini e sciacquoni. Mentre viviamo una vita iperconnessa in case virtualmente sovraffollate, non ci accorgiamo di essere più soli che mai davanti ad uno schermo: siamo abbandonati ai nostri sbalzi d’umore, alle nostre debolezze, siamo autodidatti che non riescono a concentrarsi. Siamo sempre più fermi, privi di stimoli, soffocati, apatici. Guadagniamo minuti d’orologio che avremmo perso nel traffico ma perdiamo momenti che danno sapore alla nostra vita: rischiamo di ridurci all’osso, di guardarci allo specchio e non riconoscerci più, come fantasmi malinconici che non vivono il presente ma che si aggrappano ai ricordi o alle vane, incerte, speranze future. Stiamo parlando di una ‘realtà aumentata’ quando le cose davvero ‘reali’ sono ormai ben poche. Arriveremo a non distinguere più la ‘realtà vera’? La perderemo in qualche meandro oscuro di un mondo virtuale? Arriveremo a preferire, più di quanto non facciamo già, uno smile in una chat piuttosto che uno sguardo ed un sorriso? Continueremo a cliccare su un’icona con una manina gialla o torneremo ad alzare la mano per dire la nostra? Riusciremo a seguire la bussola che ci indica cosa è reale e cosa no, per non perdere la rotta in un mare di surrogati virtuali?
Viene da chiedersi dunque quale sia il valore dell’esperienza universitaria, ormai antico ricordo, nelle sue diverse componenti: accademiche, esperienziali, economiche e relazionali. La formazione è anche, e soprattutto, contaminazione. Passando al digitale gli studenti hanno dovuto rinunciare ai momenti condivisi con gli altri colleghi tra attese, ansia, noia, risate e appuntamenti per il caffè prima della lezione. La quotidianità, fatta di studio ed esami, si compone di molteplici altre esperienze, piccole grandi cose, che l’arricchiscono e le conferiscono un significato unico: incontro e confronto con colleghi e docenti qualificano la formazione universitaria. Preziose occasioni di scambio di conoscenze e di aiuto reciproco, come i gruppi di studio, sono morte e sono state rimpiazzate dalle videochiamate o dalle ‘biblioteche virtuali’, quasi dimenticando che la vita sociale è importante tanto quanto quella accademica.
La psicologia dell’apprendimento ci dice che più c’è relazione e più si impara. Platone stesso individua nell’ ἔρως, ossia in ciò che fa muovere verso qualcosa, un principio divino che spinge verso la bellezza, la forza propulsiva, istintiva, che anima il processo educativo. Ecco perché bisogna ripartire dall’ora di lezione. Solo l’incontro misterioso tra allievi e maestri, l’occasione maieutica in cui un’anima viene aiutata dall’altra a realizzare la propria natura, può salvare un’istituzione che rischia, già da tempo, il naufragio. Niente può sostituirlo: né computer né slide né pillole tecnologiche. Il rischio della DaD, dunque, è quello di rendere lo schermo del proprio pc uno specchio vuoto che, anziché aprire mondi, li richiude in un’ autoreferenzialità mortifera. «Quando un insegnante entra in aula – scrive Recalcati[1] – deve ogni volta guadagnare il silenzio che onora la sua parola»: dietro ad uno schermo questo non è più possibile, il modus agendi di fronte agli studenti inevitabilmente cambia. «L’insegnamento passa attraverso la capacità del docente di saper generare negli allievi, attraverso il suo lavoro quotidiano, attraverso la parola e il linguaggio incarnato, la presenza e l’attenzione, lo stile e la cura della lezione, non solo interesse per ciò che insegna, ma ‘piacere’, ‘amore’» continua Recalcati. Ed ognuno di noi penserà ai suoi, di maestri, a quelli che hanno acceso la curiosità per il sapere: ne ricordiamo la voce, quel particolare timbro, le inflessioni, il modo di vestire e di gesticolare, le movenze, particolari che rimarranno per sempre dentro ognuno di noi e in ciò che diventeremo. E tutto ciò è possibile attraverso uno schermo? La presenza fisica finirà per diventare inessenziale? L’esperienza diretta e tutte quelle piccole, essenziali, cose di cui si compone verranno brutalmente sostituite da un surrogato virtuale?
[1] M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, 2014.