Essere uno studente universitario non è semplice. Gramsci diceva: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”.
È come se si instaurasse un delicato equilibrio imperniato sul motore primo, la materia grigia e la sua azione onnipervasiva. Il corpo umano è una “macchina perfetta”, ma immaginiamo che nello studente vi sia un meccanismo analogo a quello della gravidanza: egli cova dentro di sé il frutto di ore trascorse sui libri, frutto che ogni giorno deve essere nutrito con cura, costanza e un pizzico di amore.
Come nella gestazione, anche durante lo studio possono esserci complicazioni, ostacoli: dal malessere fisico più o meno grave, che inibisce la concentrazione, alle questioni di natura emotiva, il cui impatto non è minore, anzi. Perché il vivere la vita universitaria implica irrimediabilmente un cambiamento, una scoperta continua che, talvolta, porta allo scompiglio. Se per molti ciò si tramuta in una crescita “felice” è altrettanto frequente vivere l’opposto: subentrano le aspettative della famiglia che gravano su quelle personali, il timore del fallimento, il senso di impotenza e le ristrettezze economiche che si sovrappongono mentre il tempo scorre, generando la sensazione di essere in ritardo rispetto ai ritmi della società.
Così la luce si affievolisce fino a far perdere la strada. Si diventa ciechi per le speranze disattese e i sogni frustrati e si decide di lasciarla andare via definitivamente l’agonia, la vita mutilata.
Non si può trattare del tema del suicidio di uno studente universitario alla maniera di una chiacchierata sui massimi sistemi e ancor meno si possono sviscerare, secondo una legge universale, i moventi che spingono verso una decisione così estrema. Certo è che su noi ragazzi, ora più che mai, pesa la frenesia di aderire a quel criterio di perfezione imposto dalla nostra temperie storica e alla fallace idea di infallibilità che ne consegue.
Il punto è che, nel 2020, si persevera nel ribadire la superiorità del lavoro manuale su quello mentale, ancora ci si arroga il diritto di decantare l’inferiorità di un determinato percorso di studi a fronte di uno considerato più impegnativo. Ciò accade non soltanto a causa del divario generazionale, che oppone i genitori ai figli, bensì persino della competizione tra gli studenti stessi, dai quali ci si aspetterebbe maturità e compassione: siamo tutti sulla stessa barca e parimenti frangibili, ma non siamo tutti uguali.
Ognuno combatte la sua guerra personale nel quotidiano, ricordiamoci che un sorriso non è un sicuro marcatore di spensieratezza e il dolore è un mostro spesso latente.
Restiamo umani.
Facciamo tesoro della contaminazione, dello scontro virtuoso e della crescita su cui si fonda quella fucina di suggestioni che è l’università e concediamoci di cadere, di sbagliare, di riprenderci dalla sconfitta, vedendo in essa non un freno ma l’ago della bussola dei nostri desideri. Siamo liberi, non dimentichiamolo, anche di chiedere aiuto, senza sentirci deboli e di tessere il tempo come un vestito a misura di noi stessi.
Personalmente, da studentessa universitaria, ho appreso una verità, passibile di giudizio da parte degli arditi sostenitori della tesi per cui determinate pergamene di laurea siano un ottimo incarto per i panini del Burger King, ossia: per dare una dignità al nostro personale percorso di vita, qualunque esso sia, ci vuole passione. Senza la passione tutto è una inconsistente e imbellettata confezione del nulla. Non importa se la prospettiva di un figlio medico inorgoglisca un padre oppure la zia sia allettata dall’idea di una nipote insegnante, cerchiamo di vivere ogni istante affinché possiamo rispondere “sì” alla domanda che Marcello Mastroianni rivolge a Claudia Cardinale in “8 e mezzo”:
“Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo? Di scegliere una cosa, una cosa sola ed essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto e che diventi tutto proprio perché la tua fedeltà che la fa diventare infinita… Ne saresti capace?”