Da quando, a causa della situazione sanitaria dovuta al “Corona”, nelle aule universitarie si è vista sospendersi la didattica frontale e, di conseguenza, si è assistito all’interruzione del “normale” svolgimento della socialità contenuta nei rapporti umani, alle relazioni inter-personali, in particolare fra studenti, ho registrato molto disappunto e insofferenza, un certo comune senso di tristezza, da parte del suddetto plebiscito universitario.
C’è infatti, da parte di <<noi giovani>>, o almeno così mi è sembrato, la voglia spasmodica di tornare quanto prima alla “normalità” dei rapporti cui eravamo abituati, assuefatti; di riprendere in mano, in altre parole, la propria umana quotidianità fatta di scambi e contatti personali, la dimensione più fisica dell’esperienza universitaria, per molti di gran lunga la più importante, che soleva svolgersi all’interno delle aule accademiche; che usava trasmigrare poi nelle chiacchiere nei corridoi; che trasmutava a volte e addirittura, in certi casi, nei teneri scambi di effusioni tra stupefatti ventenni innamorati: l’inizio di un nuovo amore nato fra i banchi e che finiva nei baci rubati sulle panchine dei parchi, nei giardini delle facoltà…
E poi la fiumana di chiacchiere ch’empiva il nostro religioso quarto d’ora accademico quotidiano speso giù ai bar dell’università, il quale troppo spesso esondava fuor dei “rigidi” argini dei quindici minuti finendo per divorare l’intera ora di lezione, protrarsi a volte per tutta la giornata, e più, oltre; a volte finendo nella notte… Quelle amicizie nate sotto il segno e entro gli austeri, asettici confini del contesto accademico che sconfinavano, collassavano al calar delle tenebre nelle euforiche incursioni ai tavoli dell’Art di Villa Borghese… Si teneva duro, attaccati alla bottiglia di Ciroc, anche per due ore di fila: i veri esami “orali” da paura. Altro che “privato”. La media del ventotto per noi erano gli <<shot>> di mezcal ingollati in raffiche furiose al bancone vetrato del Raspoutine; l’identità diurna si perdeva, svaporava nella nebbia lasciva degl'<<iQos>> che aleggiava, vacua ed alcolica, nell’antro cùpido e appena rischiarato dalle sornioni luci violette, piene di sottintesi, profuse dagli applique sulle pareti di velluto arabescato del club… Era l’annullamento catartico che salutava il superamento di un’altra settimana di ansie accademiche: ce l’avevamo fatta…
Ma ora, tutto questo, è finito! Stop! Rinviato a data da destinarsi: nessuno sa quando! C’è chi muore, annega le giornate catapultandosi indietro nel passato; che affoga in lucciconi di lacrime moccolose perdendosi nei ricordi sbiaditi delle tracce di trascorse emozioni registrate nel rullino dello smartphone, mai sviluppato; chi non sa più chi maledire per essersi visto costretto a discutere la propria tesi davanti all’obiettivo orwelliano della videocamera del computer; dei mesi di logorante lavoro abortiti nel buffering di una connessione sincopata, i dieci minuti di concetti striminziti vomitati alla rinfusa, chè neanche tu capisci più quello che dici, il tempo diviene un preziosissimo boccone di cibo rubato, ingoiato sano e di strangòzzo al candidato chè vien dopo: si sgomita, si arriva ad odiarsi muti nei cagneschi sguardi lanciati tra candidati: tutti che si fissano assenti, decine di occhi spiaggiati in basso e a destra sull’anidra riva dello schermo. Nessuno guarda dentro l’obiettivo. Si soffocano i lancinanti tenesmi intestìni montati dall’ansia in vergognose contorsioni di busti scòliotici sulla sedia, divorati dalla paura di un improvviso collasso del wi-fi; si discuton cento pagine di elaborato facendo scorrere sul monitor condiviso cinquanta diapositive ppt. alla velocità di un adrone sparato nel tunnel del CERN di Ginevra… Non c’è tempo, non c’è tempo…
E’ ben triste raccapezzarsi, recognizzare tutto questo siffatto scenario, nevvero? Giustificato parrebbe, alla luce di questa distopica alba del nuovo mondo cibernetico, che sembrebbe imporsi trionfante sulla dimensione reale, soverchiandola, disperdendone e annacquandone i confini in una soluzione in cui diventa impossibile distinguere il solvente dal soluto, tutto questo strepitìo convulso ed esasperato che ne deriva; quest’insofferenza cronica degl’universitari allo stato attuale, distante, delle cose. Concordo: tutto ampiamente compassionevole… se non fosse per la grande ipocrisia nascosta dietro a queste grida di dolore, alla falsità di fondo e sottaciuta sulla reale natura di certi, non tutti, ma oserei dire una cospicua parte dei rapporti umani che ho visto, personalmente, e in tempi non sospetti, svolgersi sotto la chimica, vaporosa, ronzante luce al neon delle aule d’accademia negli oltre tre anni di frequentazione diretta dei corridoi universitari, ben prima che il corona cambiasse le regole del gioco…
Infatti, grazie alle mie esperienze vissute come rappresentante degli studenti e “colonna” della stessa associazione studentesca per cui, adesso, mi trovo a scrivere queste righe, ho avuto modo di osservare i rapporti umani che interessano e interrelano noi studenti sotto un’altra luce, un’altra prospettiva: quello del trascinatore di masse, di coinvolgitore, di spronatore alla coscienza delle altre, diverse possibilità che può offrire il percorso universitario se vissuto in una maniera diversa, più attiva, da protagonista e non da effimera comparsa nel palcoscenico di una recita che dura, mediamente, dai tre ai cinque atti, ognuno lungo un anno…
Ho visto “amicizie” nascere e perdurarsi all’interno dello stesso nucleo di persone per tutt’un triennio, un quinquennio, originate unicamente dal “caso” che ha portato queste persone a sedere più o meno vicini, durante il primo giorno di lezione: se solo avessero cambiato di banco, o fossero arrivati alla lezione soltanto un poco più tardi, avrebbero visto quelle persone, poi definite e ricordate come le grandi amicizie dei tempi, già impegnate nella tessitura di nuovi “rapporti” con altre persone; il loro cuore occupato per sempre da queste parallele relazioni, chiuso, inaccessibile poi in seguito a loro stessi, a terze persone…
E chè persone!, che hanno delimitato la propria socialità nell’angusta sfera di quei quattro, cinque, sei-sette rapporti al massimo intessuti con quella mezza dozzina di coetanei; stàgni all’apertura col prossimo; blindati dietro un muro di paura chè impedisce loro persino d’alzare la mano durante la lezione, quando il prof. chiede se dall’aula vi siano domande, se non hanno capito un qualcosa della spiegazione: nessuno fiata… Han dunque tutti compreso? Macchè: la seduta vien tolta ed ecco che li vedi riversarsi giù a fiotti dagli spalti dell’emiciclo vergognoso, a fiumane angosciate di vermiciattoli sgambettanti, che si precipitano davanti alla cattedra dell’oratore al termine della lezione, in trenta, in quaranta, tutti a chiedere la stessa cosa, a copiarsi con occhiate di sghimbescio gl’appunti di strafòro presi freneticamente in quella chiòsa “extra” esplicativa del docente, la parola magica a garanzia del ventotto all’orale; tutti pencolanti dalle labbra dell’autorità cattedratica nell’angoscia di strapparle quella salvifica manciata di parole strumentale a compitare un esame migliore, una “performance” aumentata. Scribacchiano frettolosi sui loro quaderni cenciosi come fossero giornalisti che dovessero poi farci un pezzo sopra, uno scoop giornalistico da ans(i)a notizie… E’ un disastro…
E poi tutte quelle facce che s’incontrano, che incrociano i propri sguardi dieci, cento, mille volte negli stessi spazi condivisi per un numero indefinito, comunque imponente, di ore, di giorni: non si salutano: s’incrociano impassibili e passano via oltre, virano lo sguardo oltre il campo ottico che si staglia loro davanti, lo fanno collassare forzòsamente in un punto indefinito sopra e oltre le spalle dell’essere che rimarrà loro estraneo per sempre. Così vogliono. Sòn meno chè una manciata di automatismi paurosi che l’animano e li dirigono, li caracollano da una lezione all’altra. Fanno finta di non vedersi come amanti chè giòchino a rimbeccarsi, rinfacciarsi puntigliosi i loro muti astii in quell’ignorarsi vicendevole chè, mentre nel lor caso ciò li condurra implacabile nel cònvolo d’un nuovo fare e rifare all’amore, foss’anche solo per ripicca, in questo’ultima opzione sortirà altro chè l’ennesimo rapporto umano abortito nel silenzio di chì, in fondo, è divorato dall’enorme paura di vivere che li irretisce, annullandoli come tanti piccoli burattini il cui puparo abbia staccato loro i fili. Non sono connessi alla sorgente della Vita ma costantemente bramano anelano il flusso a quattro, cinque, trentotto “g” del wi-fi. Postano, <<làikano>> e condividono. Basta. Sòn altro chè pigolii nervosi digitali che nascono e muoiono nel tempo di una storia su instagram. Se parli loro di diritti, di appelli; di firme per una giusta causa; di eventi, d’iniziative che programmi e sèi preso a svolgere per animare il tetro baraccone d’una ventata d’aria nuova; se puta caso li fermassi, chiedendo la loro attenzione per più di cinque secondi, eccòli che si paralizzano immòbili, ti fissano assenti nel corridoio dove l’hai braccati: fan tàmburo sordo delle orecchie e non entra più niente nella loro capoccella di ciò che tu dici, chè strèpiti, chè aneli capiscano. Speranze vane. Voglion solo il loro riassunto della lezione e la certezza chè tutto sia contenibile, lo sciibile che gl’è richiesto sapere, nei lucidi pubblicati immediatamente nella sezione “materiale didattico” del corso. Gli basta questo. Non voglion altro.
‘Sta gente qua io vorrei capire: di cosa gl’è dato lamentarsi? Chè se ne farebbero, del tempo passato se potessero tornare indietro per viverlo? Se domani “s’aprissero le gabbie”, se fosse permesso di tornare nelle aule com’era un anno fa? Uscirebbero forse, si darebbero con coscienza un colpo di reni, per emergere dal bozzòlo ovattato e anestetico del non-pensiero, dalla superficialità tòrpida della loro quotidianità universitaria, dei loro fatui rapporti, spesso mantenuti solo per còprire goffamente quel senso di squasso e vuoto esistenziale chè li divora nel fondo della loro anima dolorante e senza pace? Per me, tante lacrime da coccodrillo. D’altronde “cosa se ne farebbe dell’immortalità, una persona che non riesce ad utilizzare bene nemmeno mezz’ora del suo tempo?” s’interrogava Ralph Waldo Emerson quasi centocinquant’anni fa. Forse posterebbe una storia in più su Instagram.