Sebbene suoni strano che ancora oggi donne e uomini con lo stesso lavoro nella medesima azienda percepiscano uno stipendio diverso, occorre riconoscere che questa circostanza in realtà può verificarsi. Infatti, con il termine “gender pay gap” o “divario salariale di genere” si intende la differenza sulla busta paga a parità di mansione, un fenomeno sociale dimostrato a livello statistico che, nonostante ciò, continua a ricevere attacchi da “negazionisti”, dubitosi della sua esistenza.
Molti di loro argomentano affermando che il “gender pay gap” non esiste poiché è contro la legge pagare di meno una categoria di persone rispetto ad altre, distinguendole in base al sesso.
È vero che è illegale, tuttavia non per questo non accade.
Altri sostengono, invece, che se esiste un divario tra lo stipendio degli uomini e quello delle donne, è solo perché queste ultime partecipano meno all’economia. Persino ciò è reale, ma per ragioni più complesse e da analizzare da diversi punti di vista.
I problemi principali legati al “gender pay gap”, che complicano il dimostrarne l’esistenza, sono legati al suo calcolo e al fatto che spesso non si distingue il “gender pay gap grezzo” e quello “complessivo”.
Se si lasciasse decidere liberamente ai datori di lavoro quanto e come assumere sarebbe più immediato individuare eventuali discriminazioni. Dal canto loro, i datori di lavoro, non potendo manifestare apertamente alcun tipo di discriminazione, ricorrono a tanti altri modi per celarle, complicando la rilevazione statistica.
Inoltre, come accennato, non è corretto parlare di “gender pay gap” senza discernere tra il “gender pay gap grezzo” e “complessivo”. Il primo tiene conto solo della differenza salariale tra sesso maschile e femminile, comparando il salario medio lordo orario, mentre il secondo, invece, aggiunge al grezzo il tasso d’occupazione femminile ed il numero medio mensile di ore pagate.
Alcune delle principali classifiche sulle differenze salariali, come quella dell’OCSE, si basano sul “gender pay gap grezzo”: da queste emerge che, nei paesi OCSE, gli uomini guadagnano in media il 13.2 % in più della controparte, mentre in Italia solo il 5.6% in più.
Se si considerasse il “gender pay gap complessivo”, sommando il tasso di occupazione e la diffusione del part-time, la situazione non sarebbe così rosea. La percentuale in Italia salirebbe al 43,7%, capovolgendo la classifica.
In Italia, il part-time nei lavori ricoperti dalle donne è 32,4% contro il 7,8% degli uomini e il tasso di occupazione femminile è solo del 48%. Ciò significa che metà della forza lavoro italiana è inattiva! Se si riuscisse a colmare la differenza tra il nostro livello di occupazione femminile e il livello medio europeo (63,3%) si riuscirebbe ad aumentare il Pil del 7%.
Esistono diverse teorie che illustrano il motivo dell’esistenza di tali differenze salariali.
In un mercato del lavoro senza distorsioni, il salario dovrebbe corrispondere alla produttività del lavoro. Se si guadagna di meno è perché ci sono o delle distorsioni di mercato o perché si ha un basso tasso di produttività.
Numerose congetture sintetizzano il “gender pay gap” nella differenza tra un tasso di discriminazione e un tasso che misura le qualifiche.
L’istruzione e esperienza lavorativa fanno parte delle qualifiche e alimentano la produttività. Secondo il “World economic forum”, complessivamente c’è solo il 4% di gap di istruzione tra i due generi, mentre se ci si riferisce all’esperienza lavorativa continuativa, gli studi mostrano gli uomini avere maggiore esperienza lavorativa a lungo termine.
Ecco, quindi, un primo fattore che alimenta il “gender pay gap”, da unire al secondo altrettanto importante, la discriminazione.
Quest’ultima può essere intesa come una causa di distorsione del mercato che porta il genere femminile ad essere penalizzato pure nel mondo del lavoro.
La principale critica a questo fenomeno sociale si basa sull’idea che le persone siano sempre libere di scegliere che lavoro svolgere, ma ovviamente non è così. Le donne spendono almeno il doppio del tempo in faccende domestiche, sviluppano la loro carriera lavorativa soprattutto in part-time e partecipano meno al mondo del lavoro.
Il “gender pay gap complessivo” considera anche questi fattori ed evidenzia come la discriminazione sia un fattore fondamentale e ostico da combattere.
Non è una libera scelta delle donne il doversi necessariamente occupare della famiglia o dei lavori domestici. In aggiunta, è dimostrato che il “gender pay gap” si abbassa quando le faccende domestiche sono ridistribuite all’interno della famiglia.
Il “World economic forum” ha elaborato un “tasso di partecipazione e opportunità economica di genere” considerante i salari medi e non solo, anche quanto le persone sono partecipi nell’economia. Secondo le stime, ci vorranno più di 250 anni per colmare le differenze.
È ormai necessario riconoscere che il fattore culturale, il quale induce a pensare secondo gli stereotipi di genere, è in grado di rappresentare un fattore discriminatorio. Invero, la cultura incide sulle nostre scelte a tal punto da creare discriminazione: un problema di cui oggi si deve parlare.