Menzogne e miti attorno all’attentato di Via Rasella

«Via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani, antifascisti e non»: sono queste le parole del Presidente del Senato Ignazio La Russa durante un’intervista a Terraverso, podcast di Libero, che hanno aperto un acceso dibattito nel marzo scorso. Intorno all’attentato avvenuto il 23 marzo 1944, e il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine, sono spesso state avanzate diverse interpretazioni e affermazioni che si discostano dalla realtà, in un tentativo di revisionismo storico o per mancanza di conoscenza dei fatti.

Mario Fiorentini è uno studente di matematica all’Università La Sapienza, figlio di un ebreo. Vive nella Roma fascista degli anni ’30, immerso in un clima culturale intenso; allestisce rappresentazioni al Teatro Mazzini e ha fondato un teatro itinerante in giro per le borgate romane. Vive la promulgazione delle leggi razziali del 1938, le quali lo colpiscono a tal punto da far emergere in lui uno scatto d’orgoglio e portarlo alla decisione di divenire ebreo; decisione che sarà poi messa da parte. Dopo l’8 settembre, giorno della proclamazione dell’armistizio di Cassibile, i tedeschi occupano la Capitale e danno ordine di effettuare rastrellamenti di ebrei su larga scala. Durante uno di questi vengono arrestati il padre e la madre di Fiorentini, che riescono però a fuggire e nascondersi. Mario ha 25 anni quando decide di unirsi ai partigiani insieme alla fidanzata diciannovenne, Lucia Ottobrini. La giovane coppia vive e dorme nella cantina di un palazzone sul Celio, in via Marco Aurelio, vicino al Colosseo. Il portiere del palazzo è un compagno comunista, Duilio Grigioni, il quale lascia entrare i partigiani nella carbonaia del palazzo. Qui, in un luogo freddo e umido, Lucia si ammala gravemente; i due decidono quindi di correre il rischio e di tornare ad abitare nell’appartamento deserto dei genitori di Mario, in via di Capo le Case.

Siamo nel marzo del 1944. Roma è occupata dai tedeschi ormai da 6 mesi, i quali hanno impiantato diversi comandi e depositi, nonostante la Capitale sia stata dichiarata “città aperta”1. Vi sono file lunghissime per accaparrarsi pane e carbone, le celle delle caserme come quella in Viale Giulio Cesare sono ormai piene a causa dei continui rastrellamenti e arresti da parte dei tedeschi e la resistenza è altissima. Nel processo a Herbert Kappler (3 mag. 1948 – 20 lug. 1948), comandante delle SS a Roma, quest’ultimo raccontava come “nel Tevere spesso venivano lasciati cadaveri di soldati tedeschi” mentre il maresciallo Albert Konrad Kesselring, comandante dell’esercito tedesco in Italia, affermava che “Roma era diventata una città esplosiva e per noi era un grave problema […] Mandavamo lì le truppe a riposarsi in licenza ma ciò era diventato impossibile2. Roma rappresentava un centro nevralgico per i tedeschi. D’altronde si trovava a pochissima distanza dal fronte, cioè dal porto di Anzio, dove gli americani erano sbarcati il 22 gennaio ed erano stati bloccati dall’esercito tedesco. Roma subiva infatti anche i costanti bombardamenti americani: si stima che tra l’8 e il 18 marzo 1944 ci siano stati circa 2.000 morti ed 8.000 feriti a causa dei bombardamenti2.

Durante il soggiorno a via di Capo le Case, Mario sente il rumore di una colonna di soldati che arrivava marciando da Piazza di Spagna, intonando canzoni tedesche. Egli stesso affermerà: “ho riconosciuto le stesse divise verde marcio degli uomini che avevano preso mia madre e mio padre2. Si tratta dell’11a Compagnia del III Battaglione “Bozen”, un regimento di polizia militare dell’Alto Adige (divenuto colonia nazista) subordinato al comando delle SS. Non erano musicisti, non erano anziani, non erano innocui. Si tratta di una compagnia di più di 150 uomini armati di mitra e bombe a mano. Il più giovane aveva 26 anni mentre il più vecchio 43. Il battaglione era impegnato nei rastrellamenti delle strade di Roma e nella lotta contro i partigiani nei Castelli Romani. Mario Fiorentini si rende conto che la colonna effettua ogni giorno lo stesso percorso allo stesso orario: attraversa via di Capo le Case e si dirige verso Largo del Tritone; arrivata all’imbocco di Via del Traforo, gira a sinistra e imbocca la parallela di Via del Tritone, Via Rasella.

Mappa della zona di Via Rasella e dintorni durante l’attentato del 23 marzo 1944

A Mario Fiorentini viene in mente di tentare un’azione partigiana. Egli, infatti, è al comando di un GAP (Gruppo di Azione Partigiana); si tratta di piccoli gruppi, composti da 4/5 ragazzi, organizzati secondo una precisa gerarchia che rispondono al Partito Comunista Italiano, o meglio, da ciò che ne rimaneva (il partito sopravviveva in clandestinità ormai da anni). Questi erano spesso partigiani improvvisati, a corto di armi e munizioni. Le poche che riescono a racimolare, grazie alla presenza della resistenza monarchica che aveva accesso alle riserve del Regio Esercito, sono armi italiane di seconda mano, ma spesso le armi si inceppano e gli esplosivi non esplodono. Costretti a vivere in clandestinità, in luoghi chiusi dove rimangono per giorni, soffrono la fame e riescono a mangiare solo in trattorie dove l’oste o il cameriere è un compagno comunista.

Nei giorni seguenti Mario decide di parlare con i suoi compagni e con gli appartenenti a un altro GAP capeggiato da Rosario Bentivegna detto Sasà, uno studente di medicina di 21 anni di origine siciliana. All’interno del GAP capeggiato da Bentivegna vi è anche la fidanzata di quest’ultimo e futura moglie, Carla Capponi. Il 18 marzo i due decidono di incontrarsi per vedere se la colonna passi allo stesso orario indicato da Fiorentini, le 14:00; ma la colonna non passa. Il giorno seguente, i due riprovano ma senza fortuna. Il 20 marzo 1944 sono di nuovo lì in attesa e questa volta la colonna passa cantando in tedesco per le vie di Roma. Sasà mormora agli altri “questi bisogna attaccarli2. I due devono però rispondere alla gerarchia. A comandare la rete clandestina era in quel momento Carlo Salinari, un assistente universitario di 25 anni soprannominato Spartaco. Fiorentini e Bentivegna gli parlano della colonna tedesca e della volontà di attaccarla. Salinari non si mostra però convinto perché ha paura che la colonna sia composta da troppi uomini e che l’azione finisca male. In ogni caso anch’egli deve rispondere a qualcun altro, cioè al Comando militare del PC, al cui vertice vi era Giorgio Amendola. Quest’ultimo era il rappresentante del Partito Comunista nella Giunta militare del CLN3 (Comitato di Liberazione Nazionale). La colonna era stata vista anche dal clandestino Amendola, il quale passava per Piazza di Spagna per dirigersi al Palazzo di Propaganda Fide – che in quanto del Vaticano godeva di extraterritorialità – e incontrarsi con il capo della DC, Alcide de Gasperi, anch’egli costretto in clandestinità. Giorgio Amendola si mostra favorevole all’operazione. La decisione rispondeva anche ad un ulteriore esigenza: la Giunta Militare era in contatto con il comando alleato che chiedeva attacchi interni a Roma con lo scopo di indebolire i comandi tedeschi.

Gruppo di gappisti romani, tra i quali alcuni dei partecipanti all’attentato di via Rasella. Dall’alto e da sinistra cerchiati in rosso: Giulio CortiniLaura GarroniFranco CalamandreiDuilio GrigioniMarisa Musu. Sotto, accovacciati: Francesco Curreli, Carla CapponiRosario BentivegnaCarlo Salinari, Ernesto Borghesi, Raoul Falcioni. Seduto, davanti al gruppo Fernando Vitagliano. Sdraiato a terra Pasquale Balsamo.

L’azione necessitava di un preciso studio e coinvolgeva 17 partigiani, tra cui 4 donne. Si trattava di un’azione partigiana senza precedenti. Nei giorni precedenti Carla Capponi si occupò di ritirare l’esplosivo un po’ per volta in Via Urbana dai soldati del Regio Esercito. Con l’esplosivo e i contenitori fabbricati da compagni nella fabbrica di gas in Via Ostiense, il fisico Giulio Cortini fabbricò la bomba assieme a sua moglie. Si decide che la bomba debba essere posizionata in Via Rasella in quanto nella via in salita la colonna normalmente rallenta e serra i ranghi. Viene cronometrato ogni passaggio della compagnia: il momento di svolta dura 45s e la colonna si trova interamente nella via per 1m e 30s. Ciò significa che la miccia dovrà durare 50s esatti e che in quell’arco di tempo in cui la colonna si trova all’interno della via la bomba dovrà esplodere. Dopo l’esplosione un gruppo di GAP dovrà intervenire con bombe a mano, seguito da un altro che dovrà sparare permettendo agli altri di fuggire. Per trasportare la bomba si decide di utilizzare un carretto della raccolta dei rifiuti.

Il 23 marzo 1944, dopo aver pranzato alla Birreria Dreher in Piazza Ss. Apostoli, Cortini e sua moglie, Bentivegna e Carla cominciano a muoversi. Dopo essere tornati in via Marco Aurelio, Carla parte a piedi con in borsa 4 bombe a mano che dovrà consegnare al primo gruppo mentre Bentivegna, travestito da spazzino, parte con il carretto per la raccolta dei rifiuti dove è nascosta la bomba4. Alle 14:00 tutti sono pronti: Bentivegna è in posizione, così come il compagno Franco Calamandrei che deve dare il segnale, togliendosi il berretto. Carla ha lasciato le bombe al gruppo e si è appostata all’ingresso del Messaggero in via del Tritone, con in mano un impermeabile in attesa del fidanzato Bentivegna. Una volta azionata la miccia, Bentivegna infatti dovrà raggiungere Carla per cambiare l’abito e fuggire. Alle 14:30 la colonna ancora non passa. Rosario comincia a fumare mentre Carla legge il giornale nelle bacheche del Messaggero. Due poliziotti in borghese notano la ragazza e tentano di attaccare discorso con lei. Alle 15:40 sono ancora in attesa. Carla vede dei bambini che giocano davanti Palazzo Barberini e tenta di scacciarli; interverrà un altro gappista lanciandogli il pallone lontano. Nel frattempo, Rosario continua a fumare ma si rende conto che ha solo 3 sigarette e con una di queste deve accendere la miccia; così per non dare nell’occhio comincia a spazzare la strada. Carla decide di allontanarsi e risale via Rasella. Bentivegna crede sia un segnale e accende la miccia ma si accorge dell’errore e la spenge. Alle 15:50 compare la colonna, in ritardo a causa dell’esercitazione al poligono. Calamandrei si toglie il berretto e dà il segnale mentre Carla si ferma a via delle Quattro Fontane in attesa di Rosario; quest’ultimo dà fuoco alla miccia e comincia a risalire via Rasella. Carla infila l’impermeabile a Bentivegna e i due si accorgono di essere osservati dai due poliziotti in borghese. I poliziotti cominciano a muoversi ma nel frattempo passa un autobus e la coppia svolta. Via Rasella esplode, 26 tedeschi e 2 civili muoiono sul colpo, altri nella notte. In totale si avranno 35 morti (di cui 2 civili italiani) e 64 feriti (di cui 11 civili italiani).

Sul posto arriva il generale Kurt Mälzer, comandante tedesco di Roma, mentre era già presente Eugen Dollmann, comandante delle SS. Quest’ultimo durante il processo raccontò che Mälzer arrivò ubriaco e che, alla vista dei feriti e dei soldati che sparavano ovunque, cominciò a gridare “vendetta per i miei poveri camerati”, promettendo di far saltare tutte le case di via Rasella. Nel frattempo, Hitler viene messo a conoscenza dei fatti. Un ufficiale del suo stato maggiore ha scritto “in due occasioni vidi il Fuhrer fuori di sé, in un vero e proprio attacco di follia: quando seppe dell’attentato partigiano di via Rasella a Roma e quando seppe che Parigi non era stata distrutta prima che arrivassero gli alleati2. Quella sera stessa gli alti ufficiali discussero della rappresaglia con Hitler. Anni dopo Dollmann, Kappler e Kesselring concordarono che fecero il possibile per ridurre le vittime poiché Hitler avrebbe voluto far uccidere 50 italiani per ogni tedesco mentre per loro “era una pazzia”. Alle 23:00 del 23 marzo 1944 Hitler si era ormai calmato ed era sceso a patti: 10 italiani per ogni tedesco ucciso, entro 24 ore. Kappler e il suo braccio destro passarono la notte a comporre l’elenco dei condannati con la collaborazione del questore Caruso, che aiutava nel trovare i detenuti che mancavano. Al mattino arriva la notizia di un ulteriore morto e si procede all’aggiunta di ulteriori 10 nomi. I condannati vengono portati alle Fosse Ardeatine dove vengono conteggiati nuovamente: ci si accorge che per errore sono 335, dunque 5 in più, ma si decide di fucilare anche loro comunque. Un superstite dell’11a Compagnia ha dichiarato durante il processo che “la rappresaglia delle Fosse Ardeatine fu fatta nel massimo rispetto della legge. Alla fine, rimasero soltanto ebrei, comunisti, altra gente così. Nessun innocente.”. Le esecuzioni terminarono intorno alle 20:00 del 24 marzo 1944.

L’edizione delle 12 del 25 marzo 1944 dei quotidiani italiani pubblicata con il comunicato della rappresaglia diffuso dal comando tedesco.

Il 24 marzo, mentre le esecuzioni venivano effettuate in gran segreto, tutti parlavano dell’attentato di via Rasella, mentre nessuno sapeva della rappresaglia che si stava svolgendo. Il giorno successivo, il 25 marzo 1944, alle ore 12:00 su vari quotidiani italiani usciva un comunicato del comando tedesco: questo parlava della “vile imboscata eseguita da comunisti badogliani […] su incitamento anglo-americano” e annunciava la decisione che “per ogni tedesco ucciso, dieci criminali comunisti italiani badogliani siano fucilati”. Il comunicato concludeva così: “quest’ordine è già stato eseguito”. Alcuni affermano che prima di compiere la rappresaglia i nazisti avevano chiesto ai responsabili di presentarsi, garantendo che i detenuti non sarebbero stati fucilati al loro posto così come altri affermano che “non avrebbero dovuto fare l’attacco perché sapevano che i tedeschi avrebbero ucciso 10 italiani per ognuno”. Lo stesso Kappler durante il suo processo dichiarò che era stato ordinato che la rappresaglia avvenisse in totale segretezza, perché “avevano paura che se si fosse saputo che avrebbero fucilato 300 persone, Roma sarebbe insorta”, e che nessun ufficiale si era preoccupato di cercare i colpevoli poiché erano certi che la popolazione li avrebbe coperti. Infine, numerosi studiosi concordano nell’affermare che una rappresaglia di tali proporzioni non fosse mai avvenuta, che mai i tedeschi avevano fucilato 10 persone ogni tedesco. Non vi sono documenti né altre fonti che testimonino precedenti del genere. Una sola cosa era certa e testimoniata dai manifesti: “chi attacca i tedeschi sarà punito con la morte”.

Vorrei concludere con le parole dello storico Alessandro Barbero, intervenuto durante il Festival della Mente del 2017: “se vivessimo in un altro Paese non ci sarebbe da aggiungere altro, ma noi viviamo in Italia. Dove i fatti contano meno dell’ideologia e dove ognuno si reiventa la storia come piace a lui2.

Valentina Zollino

Fonti:

  1. L’espressione indica che la città non viene dotata di mezzi difensivi o offensivi e che per tali ragioni dovrebbe essere risparmiata dai bombardamenti o da azioni belliche. (https://www.raicultura.it/storia/accadde-oggi/Roma-citta-aperta-81c166d2-39fd-4afd-b7a9-f30e39f0a15e.html#:~:text=Il%2013%20agosto%20la%20Santa,bombardamenti%20o%20da%20azioni%20belliche.)
  2. https://open.spotify.com/episode/78QAF2jSbxndn36BTmCPeb?si=soleLjMaSFWMCPpXQmDO0w
  3. L’organismo politico e militare costituito dai principali partiti e movimenti antifascisti del Paese (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito d’Azione, Partito Democratico del Lavoro, Partito Liberale, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), formatosi a Roma il 9 settembre 1943, allo scopo di opporsi all’occupazione tedesca e al nazifascismo in Italia.
  4. https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2022/02/La-bomba-di-Via-Rasella-3887b522-795e-4a7a-abc3-63aaec8deacb.html

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