Per comprendere a fondo le cause che portarono alle terribili violenze subite da una parte della popolazione in Ruanda negli anni ’90 del XX secolo, bisogna necessariamente fare un passo indietro fino alla fine del XIX secolo.
Una questione di etnia
In quegli anni, i colonizzatori europei, in particolare la Germania, trovarono nella regione dei Grandi Laghi due distinti gruppi umani: Hutu e Tutsi. Entrambi erano ben consapevoli delle loro differenze (che legittimavano, tra l’altro, la supremazia dei Tutsi), ma la loro convivenza era pressoché pacifica e non erano rari i casi in cui le due comunità si mescolassero, condividendo sia la religione che la lingua. Nel 1924, i Belgi ereditarono la colonia e attuarono in quei territori azioni di stampo razziale, proprie degli europei di quel periodo; in particolare: sancirono la supremazia della minoranza Tutsi e, negli anni ’30, attuarono una registrazione attraverso carte d’identità, condotta per etnia. E’ da questo momento che si interiorizzerà nelle due comunità la coscienza della loro diversità e la parola “Hutu” diventerà sinonimo di inferiore. Una svolta si ebbe nel 1959: scoppiò in Ruanda una grande rivoluzione sociale che, nel 1962, portò alla sua indipendenza. Il risultato fu l’inversione dei ruoli: infatti, se prima i ruoli di comando erano di accesso esclusivo alla minoranza Tutsi, ora invece sono gli Hutu a prendere il potere. Ciò avvenne anche grazie allo Stato e alla Chiesa belgi che, volendo dare maggiore stabilità al nuovo assetto post-coloniale, appoggiarono la maggioranza Hutu. Le carte di identità rimasero e i Tutsi furono quasi totalmente estromessi dalle mansioni pubbliche.
Nel 1972, in Burundi, a seguito di un’insurrezione da parte degli Hutu, causata dai tentativi di pulizia etnica dei Tutsi, ci fu un contrattacco della milizia paramilitare di quest’ ultimi che sterminò 100000 Hutu e ne fece emigrare altri 200000 in Ruanda. È importante dire che tutto ciò nacque dalla paura di essere annientate l’una dall’altra e che le pulizie etniche messe in atto da entrambe, rientravano in un clima di vendetta reciproca. Questi avvenimenti verranno strumentalizzati dal regime totalitario di Habyrimana, nato nel 1973 in Ruanda. Il nuovo governo, se da una parte promise la pace ai Tutsi, dall’altra rese l’esercito di esclusivo monopolio degli Hutu. Negli anni ’80 il milione di Tutsi in esilio fondò la “Fronda Patriottica Ruandese (FPR)” che sarà il casus belli dell’imminente e preannunciato genocidio. La costituzione di tale fronte sarà strumentalizzata dal regime, che la userà sia come espediente per aumentare quel sentimento di paura già radicalizzato e sia per giustificare le atrocità contro quel gruppo che in passato aveva commesso violenze contro gli Hutu. Il primo ottobre 1990, l’FPR avviò una lotta armata contro il regime totalitario di Habyrimana, chiedendo la fine della dittatura. In risposta il governo di Kigali (capitale del Ruanda) organizzò un arresto di massa dei nemici interni, un massacro di 350 Tutsi e la pubblicazione dei “10 comandamenti Hutu” dove venne espressamente dichiarato di non avere pietà per i Tutsi. La divisione divenne irreparabile e la volontà di sterminio dei Tutsi si trasformò in realtà: iniziarono così i massacri dei civili di tale etnia e, in aggiunta, vennero compiuti omicidi diretti contro gli Hutu moderati.
Ha inizio il genocidio
La Francia provò a fermare il conflitto puntando sull’introduzione del multipartitismo: tale azione però venne vista dagli Hutu radicali come un pericolo per il loro dominio. Nel 1992 nacque la milizia “Interahamwe” che si organizzò reclutando giovani in situazione di difficoltà e raccogliendo armi, con il chiaro obiettivo di sterminare i Tutsi. Nell’anno successivo, la firma degli accordi di Arusha, voluti dall’ONU, tra il regime e l’FPR portarono alla luce l’incapacità del governo hutu di Kigali nella gestione della situazione e, in aggiunta, concessero una vittoria all’FPR, che riuscì nel suo intento di trasformare una lotta etnica in una lotta politica. La situazione rimaneva nelle mani dell’ONU che permise non solo il ritorno dei rifugiati Tutsi, ma anche l’unione dei due eserciti e la formazione di un governo di transizione multipartitico. Il malcontento degli Hutu, però, era fortissimo: venne presa così la decisione di formare i cosiddetti “squadroni della morte”. Il 6 aprile 1994, l’aereo in cui viaggiava il presidente Habyarimana venne abbattuto da un misterioso missile e la colpa venne attribuita ai Tutsi. Nei giorni successivi la macchina della morte venne messa in moto e i Tutsi, riconosciuti sulla base delle carte di identità, vennero sterminati. Grazie all’ampia partecipazione della popolazione Hutu, spinta dall’odio generato dalle manovre dello stato, le violenze furono commesse capillarmente in tutto il territorio. La popolazione agiva al fianco della gendarmeria e delle milizie, i massacri erano di una violenza inaudita. Ad essere usati non erano fucili o armi tecnologiche ma machetes, coltelli e mazze chiodate. Gli esecutori non provenivano da reparti militari ma molto spesso erano semplici cittadini che, nei casi più tragici, finivano per uccidere persino i loro vicini di casa, semplicemente perché di etnia differente, semplicemente perché Tutsi. A testimoniare l’estrema violenza utilizzata fu il fatto che il 70% delle donne risparmiate vennero deliberatamente stuprate da uomini affetti da AIDS in modo che, pur sopravvivendo, non potessero concepire prole.
Infine, un’altra peculiarità, fu la velocità di esecuzione di questo genocidio: in tre mesi l’80% della popolazione Tutsi venne letteralmente sterminata. Molti degli autori delle stragi rimasero impuniti a causa della loro fuga in altri paesi, anche europei, riuscendo a scampare alle condanne promesse loro. Solo nel 2008 ci fu una svolta importante: l’ex ministro della difesa Théoneste Bagosora, l’ideatore del genocidio, venne condannato all’ergastolo. Assieme a lui altre autorità militari, ad esso collegate.
In conclusione
Quando si parla di genocidio, la memoria ci riporta spesso ad eventi lontani dal nostro presente; ci riporta a qualcosa che sicuramente non si ripeterà, a qualcosa di lontano, a qualcosa che nacque dalle menti di personaggi folli. Quanto appena narrato risale alla metà degli anni ’90: qualcuno di noi era già nato, qualcun altro no ma, in ogni caso, non è questione di epoche. La parola chiave è ideologia. Un’ideologia malata che, nutrendosi dell’ignoranza degli uomini, ne ha corrotto i cuori e ne ha reso catastrofiche le azioni. Una cosa, in particolare, possiamo imparare da tutto questo: studiamo la storia per cambiare il presente.